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mercoledì 3 agosto 2011

Il padiglione molisano della Biennale - recensione

Lunedì 11 luglio si è inaugurato a Isernia, presso l’Officina della Cultura, il Padiglione molisano per la 54° edizione della Biennale di Venezia, padiglione che rientra in un più complesso sistema di sedi espositive curate dal critico Vittorio Sgarbi. Le discussioni non sono certo mancate, anche se l’idea di far partecipare tutte le regioni alla prestigiosa manifestazione è stata forse la proposta più interessante della rassegna, per la volontà di censire e recensire l’intero territorio dando modo anche agli artisti locali di partecipare alla prestigiosa kermesse. In Molise tale manifestazione artistica è di sicuro la più importante dai tempi della Biennale del Sud, ospitata nel 1988 al castello di Gambatesa, ma è stata recepita poco dagli organi di informazione pronti ad elogiare la “politica” ma poco propensi, o adatti, a riflettere sul merito delle opere e della selezione. Premetto subito che il padiglione funziona e lo stesso Sgarbi ha elogiato i locali dell’ex capannone ferroviario che, anche visivamente, sembra una propaggine dei padiglioni veneziani; l’allestimento minimale da il giusto spazio e peso alle opere perfettamente a loro agio nella struttura. Forse proprio la limitatezza della selezione ha permesso una maggior fruibilità dei lavori, cosa per esempio non avvenuta nel padiglione italiano. A parte qualche eccezione i lavori sono interessanti in quanto la visita non risulta noiosa, anzi permette il confronto con una grande varietà di linguaggi, e anche la presenza di diversi giovani (molti però residenti fuori regione) è un buon segnale di vivacità e rinnovamento dell’ambiente artistico. Qualche perplessità, oltre all’assenza di una linea curatoriale e ad una commissione inviti rimasta nel vago, deriva dalla mancanza di diversi artisti storici e storicizzati poiché si è persa l’occasione di dar il giusto riconoscimento a figure che hanno sempre lottato per e con l’arte contemporanea, in tempi nei quali il territorio era chiuso alle avanguardie. Anche se una Biennale non deve essere il luogo della memoria a mio avviso l’occasione era la più adatta, se non altro per l’ampio richiamo mediatico, per presentare al grande pubblico una completa? selezione dell’arte molisana che tra l’altro mostra proprie peculiarità poco recepite dalle nuove leve che, vuoi per vuoto istituzionale o desiderio di evasione, sono costrette a lavorare fuori regione interrompendo quel legame con le proprie origini e recependo così altri stimoli. Come premesso vorrei offrire ai lettori di Zenit brevi recensioni delle opere, per dare il giusto spazio sopratutto agli artisti, con la speranza che questa significativa e riuscita iniziativa possa portare in regione un rinnovato interesse per l’arte contemporanea che si risolva con la programmazione di nuovi eventi che possano colmare il vuoto lasciato dalla selezione. Giacinto Occhionero presenta un dipinto su plexiglas, Membra Collant, che raffigura, con surreale commistione, un incrocio tra uno squalo e una gamba femminile; “l’animalizzazione” dell’arto veicola sensazioni di velocità e rapacità che si traducono in un’esplosione di forme e colori. Michele Sottile con Il suono è il primo movimento dell’immobile (omaggio a Giacinto Scelsi) unisce pittura e video: mentre gli inchiostri su carta diventano essenziali pentagrammi immaginifici con linee e segmenti che formano moduli e scansioni ritmiche (in riferimento alla musica microtonale di Scelsi), nel video un rumore di fondo distorto commenta immagini di stanze alterate cromaticamente o onde marine. Dante Gentile Lorusso, in Lettera d’amore, crea una composizione di segni, ovvero attraverso l’uso di un linguaggio perduto/inventato gioca tra senso e spaesamento dove il senso è dato dalla riconoscibilità scritturale delle forme, lo spaesamento dalla loro incomprensibilità. Ernesto Liccardo con L’urlo e Fukushima lavora su tele che si piegano all’essenza delle impressioni, veicolando con distacchi spaziali e colori disfatti un malessere interiore; ecco allora che le opere diventano come cellule cancerogene della società moderna. Michele Mariano in My Time-Personale Time riflette con lo spazio (dell’installazione) e col tempo (del video e della sua performance): nella differenza tra tempo e durata, postulata da Bergson a fine ‘800, si gioca gran parte dell’arte contemporanea, mentre nell’inconciliabile scissione tra il mondo e la coscienza individuale deriva l’abbandono ad un eterno presente. Luigi Mastrangelo espone Lo stagno e Il Bosco; in queste tele figure oniriche, a metà strada tra cartoni animati e divinità pagane, sono raccontate e descritte col linguaggio pop dei colori primari e della bidimensionalità che annulla la loro individualità. Vincenzo Mascia riflette sulla struttura interna/esterna delle forme; in Quadrato-struttura, Onda-struttura e Tondo-struttura la configurazione delle sagome diventa una poetica del ritmo, della distanza, dello spazio con la geometria che supera l’espressione. Giuseppe Capitano espone Artigli, un’installazione surreale che presenta due zampe di gallina ingigantite e sospese; l’ingrandimento del particolare annulla il legame delle forme con la natura giocando sulla sorpresa e l’eccesso. Giulia De Filippi in + e – e Brian Map gioca con le parole e con dualismi (positivo/negativo, forme/colore, destra/sinistra, sapere/non sapere) veicolando le contraddizioni delle forme e dei concetti trasmessi dalle conformazioni e dai sistemi. Paolo Borrelli porta in Biennale delle tavole che formano un ideale polittico (Una rotta parola, Revolutionand Repetition, La dolce menzogna, Non pena, non febbre, non ombra): all’interno dei profili della testa dell’artista sono inserite delle immagini che raccontano, attraverso il montaggio visivo, le contraddizioni della Storia intesa come accumulo di documenti difficilmente decifrabili e ricomponibili in maniera univoca. Caterina Notte presenta due foto dalla serie Arm Candy e un video: la femminilità, con modalità voyeuristiche, è esibita senza limitazioni e si apre ad una sessualità esplicita che gioca col tema del doppio, della sensazione e della simulazione. Umberto Petrocelli in Rejoicel lavora sulla specularità delle forme (animali, oniriche, fantastiche, lontanamente pop) organizzate in un’apparente simmetria visiva, e presenta anche il videoclip del singolo dei Lapingra, This is not a test, per il quale ha curato regia e costumi; video surreale e barocco, elaborato e sfuggente nel raccontare la fantasiosa cacciata di un dittatore. Manovella ne La Notte e il Santo e L’ultimo Beethoven, col suo peculiare stile minimale e poetico, dispone sulla tela tutti quegli elementi capaci di ricreare una storia, da decifrare come fosse un rebus o immaginare con fosse un sogno. Esplosione cosmica e Risonanza magnetica di Helena Manzan sono due grandi tele dove colore e sostanza deflagrano in intensi cangiantismi e grumi materici; pur nel disordine derivato da una pittura d’azione violenta e vigorosa si percepisce una studiata elaborazione della superficie che diventa anche luogo della memoria (l’uso della pelle di serpente richiama le sue origini brasiliane). Elio Franceschelli col Suicidio del caciocavallo (già raccontato nel numero precedente) realizza un’opera dal chiaro intento polemico nello smontare le velleità del curatore Sgarbi che avrebbe voluto esporre come opera addirittura il culatello di Parma; il gesto del caciocavallo, allora, diventa metafora del naufragio del sistema dell’arte. Valentino Robbio con le sue installazioni, The Trip e O.G.M. (organi geneticamente modificati), lavora sullo spazio nel realizzare scenografici allestimenti di oggetti incongruenti che attraverso una genuina ironia e un’intelligente sarcasmo spiazzano il fruitore. Igor Verrilli, con la sua pittura iperrealista, presenta tre tele che raffigurano altrettante copertine di riviste (Il grande bluff - Flash art, Sdoganamento - Famiglia Cristiana, Che Bella Italia - Bell’Italia) “rivisitate” con l’inserimento di notizie inventate ma desunte dall’attualità nazionale e regionale; la veridicità delle composizioni si scontra con la satira disorientando il fruitore/lettore. Andrea Nicodemo per You don’t under stand that i love you realizza una composizione polimaterica e minimale giocata sull’esibizione e sfoggio dell’organo dell’amore, con una domanda: cuore o pene? 

Tommaso Evangelista

Su Zenitmagazine di Agosto

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